La soffitta

Strano che
I miei bordi
riempiano gli spazi,
non ricordo
i miei piedi
toccare l’altra parte.
Di me che penso
di starci anche
domani,
questo luogo
non è un luogo,
è me che spinge
inutilmente
contro le pareti.
Qui il passato
non conosce mani
che cercano conforto,
qui le storie
diventano amiche fragili
con la voce.
E’ un ventre chiuso
dall’interno
in cui ho leccato
ogni angolo
della mia amara
soffitta spenta,
che ho bruciato a volte,
raccontando che forse
era meglio così.
Quando ero stanco
di camminare,
seppur la polvere
mi avesse ascoltato,
risucchiato,
madido d’inespressione,
le forme, le cose,
scivolavano via inanimate,
scomparendo
in un tunnel di tuono,
dimenticando di avere corpo,
ricoprendo distanze
prese d’ostaggio
dalla monotonia.
Qui le mie gambe
sono motori,
molte volte
ho sconfitto la macchina,
molte volte
con i passi sull’asfalto
e le buche in controsenso,
la vita è un controsenso.
Bianca è l’iride
gettata all’indietro
nascosta alla luce, ma tanto
enormi grattacieli
pulsano nelle orecchie
e la cazzo di stanza
che gira e gira,
soffermandosi su ombre
che non mi appartengono.
Pulisci il corpo a quell’altro
o prima o poi si lamenta
e si sente abbandonato
dai suoi vortici nello stomaco
dal suo lamentarsi di tutto,
persino da me
che lo tengo in vita
e non lo lascio invecchiare
o peggio
che sia uguale agli altri,
e il ringraziamento?
Dischiudere le palpebre
tastando il colore del tempo
e non prenderne mai parte,
movenze su ombre
che non mi appartengono
quindi ricalcate,
che hanno la stessa cadenza
del silenzio reso fermo
dall’immaginazione
di un pensiero idiota.
Lo scatto naturale
in avanti che
afferra le mani
dell’altro
diviene invisibile,
poiché
troppo sofferto.